I criteri ESG: da “buzzword” a bussola del fare impresa, verso un reale valore sostenibile
 
Il termine ESG (acronimo di Environmental, Social and Corporate Governance) si è gradualmente diffuso nell’ambito degli investimenti fino a diventare una buzzword: una parola spesso utilizzata fuori contesto e quanto mai abusata dalle aziende per abbellire i propri report annuali e compiacere i propri stakeholders.

In realtà, il termine ESG nasce per rappresentare dei criteri di selezione di un investimento che differiscono da quelli puramente economici e che indubbiamente, se presenti, giovano alla sua sostenibilità nel lungo termine.
Questi criteri si dividono in tre aree:

  • Environmental: quelli legati all’impatto dell’investimento sull’ambiente e sul territorio;
  • Social: quelli relativi all’impatto sociale dell’investimento a livello di comunità allargata;
  • Corporate Governance: i criteri legati agli aspetti interni e ai metodi di gestione delle aziende investite (ad esempio, l’etica retributiva e le politiche a favore della diversità).

Come tutti sappiamo, l’economia è la scienza che indaga la gestione delle risorse scarse. Di conseguenza, un comportamento economicamente virtuoso è quello che ottimizza l’utilizzo di queste risorse.
Nonostante la tendenza ad annoverare tra queste risorse solo quelle finanziarie (denaro disponibile), tecnologiche (tecnologie e sistemi di produzione) e umane (lavoratori e relative skills), non dobbiamo dimenticare che quelle più scarse sono le risorse ecologiche, che il nostro pianeta ci mette a disposizione e che dobbiamo preservare, assieme al benessere dei suoi abitanti, per evitare disequilibri potenzialmente distruttivi.

È per questo motivo che i criteri ESG, al di là degli abusi linguistici a loro associati, devono essere considerati un’importante bussola, nel campo degli investimenti, per qualunque attività che voglia creare valore (non solo economico/finanziario ma anche sociale e ambientale) sostenibile nel lungo periodo.

Come ricorda il CEO di HOPE, Claudio Scardovi, “il valore economico di per sé è assolutamente effimero se non comporta un reale incremento del benessere diffuso, inclusivo, socialmente responsabile, psico-fisico, di noi come cittadini, ovvero individui parte di comunità più estese e con uno scopo ultimo che è (si spera) ben diverso dal sopravvivere con il minimo attrito o arricchirsi all’infinito”.
Oltre alla già innovativa domanda “Quale valore per chi?” che porta inevitabilmente alla riflessione “quale miglior impiego di ciascuno, come risorsa umana?”, occorre anche riflettere sul seguente quesito: “Quale valore sostenibile?”

Non c’è, infatti, nessun valore in una ricchezza finanziaria ed economica di cui possiamo disporre in contesti, ad esempio, di segregazione e diffusa povertà dei molti, in città inquinate e malsane, in una biosfera destinata a lasciare in eredità ai nostri figli terreni erosi, falde acquifere inquinate e specie animali ridotte o infestanti.

Il valore sostenibile che vogliamo raggiungere e sulla base del quale dobbiamo impostare le nostre ricette di ricostruzione e trasformazione dopo la crisi, deve fare i conti con il debito finanziario ma anche con i disequilibri sociali ed ecologici che spetta a noi risolvere, riconciliando nello stesso momento ciò che è apparentemente inconciliabile: “fare bene facendo del Bene”.